“La casa è dove si trova il cuore” – Plinio il Vecchio, Storico e Naturalista d’epoca romana.
Piccola, semplice e antica frase che racchiude un senso profondo, che sposta l’accento dall’abitare in senso di risiedere, verso il sentire qualcosa, il sentirsi a casa. Quante volte è come se fossimo a casa nostra, eppure siamo in un luogo nuovo, sconosciuto. E quante altre volte, invece, siamo nella nostra città di residenza, eppure non ci sentiamo a casa, non è esattamente lì che vorremmo stare ora. Se dico “a casa mia”, credo che ai più faccia venire in mente un nido in cui ci sentiamo protetti, sicuri, rifugiati.
Qualcosa di nostro a livello emotivo, sentimentale. Un varco dentro cui lasciarsi andare, che divide il dentro dal fuori. Un angolo di mondo solo nostro in cui trovare ristoro dopo un’intera giornata di lavoro. Se dico “abito lì”, il tutto si stempera immediatamente, perché stiamo parlando dell’ubicazione fisica, di un luogo oggettivo. Quel “mio” iniziale, invece, sta a sottolineare il come ci sintonizziamo e vibriamo rispetto a quel luogo.
Nell’articolo di oggi parliamo di come siano molti i fattori diversi che entrano in campo quando alludiamo al sentirsi a casa, e del far sentire a casa qualcuno nelle relazioni a tavola in area professionale.
Partiamo dalla riflessione che siamo un tutt’uno fra necessità materiali e necessità intangibili. Abbiamo bisogno di nutrirci fisicamente tanto quanto emotivamente. Il bisogno primario legato ad avere un tetto sopra la testa sparisce quando sale la marea di un disagio interiore. Quante persone fuggono da città confortevoli e case mozza fiato alla ricerca della propria casa interiore?
Nulla è come sembra essere in senso convenzionale quando vogliamo creare le basi di una solida relazione. Tutto diviene personale e interpretato dall’insieme delle esperienze vissute fino a qui. Il percepire tramite i nostri sensi filtra la realtà esterna dandole valore grazie alla realtà interiore. Così un profumo improvviso che ci distrae e ci riporta ad un ricordo, diviene più caldo e piacevole della realtà esterna vissuta in quel momento.
Quando parliamo di relazioni, quanto può contare il cercar di capire bene a fondo cosa faccia sentire a casa sua il nostro partner, collaboratore o cliente? Talvolta passiamo subito al pranzo di lavoro, anche con una nuova relazione. In certe occasioni non possiamo farne a meno perché, supponiamo, il nostro cliente arriva dopo un viaggio e ha tempo di riceverci solo a pranzo. Scatta l’ansia prestazionale, vogliamo fare bella figura, gli offriamo il meglio della nostra tradizione culinaria locale, il ristorante migliore, i vini più pregiati. Questi sono sentimenti bellissimi, parlano di come desideriamo creare confort nello stare insieme. Eppure manca un ingrediente fondamentale: stiamo facendo in modo che il nostro partner professionale si senta a casa? Che stia come se fosse a casa sua? Nel senso percettivo ed emozionale del termine.
Se, certamente, aprire le porte di casa nostra, oppure di dove ci sentiamo a casa nostra, può voler significare apertura verso l’altro e accoglienza, già quindi un buon livello di sensibilità che avvicina le persone, il top lo raggiungiamo invertendo le cose: mettere l’altro nelle condizioni di sentirsi come a casa sua, come vorrebbe stare lui.
Va da sé che non può bastare offrire un pranzo del nostro territorio che a noi piace, o che è rinomato e ben cucinato e servito. Nemmeno, per cercare di entrare in empatia, cercare di studiare la località di provenienza del nostro ospite a tavola, e fargli trovare il piatto tipico del suo territorio. Occorre invece porsi in ascolto e attendere che la relazione sia a quel punto d’apertura magico in cui ci si racconta cosa ci piace fare, assaporare, guardare, ascoltare, e porsi verso il nostro partner nell’ottica dello stupore: “grazie, mi sento a casa mia, come hai fatto a ricordarti che la sera preferisco mangiare questo e che la mattina non faccio mai colazione se prima non ho fatto questo?”